Terapia e fotografia

June 2, 2023 § Leave a comment

Attraverso una amica fotografa, Barbara Pasquariello, sono arrivato a conoscere NetFo, il Network Italiano di Fototerapia, Fotografia Terapeutica e Fotografia ad Azione Sociale del cui gruppo di lavoro propongo qui una intervista collettiva. Con la convinzione che conoscere alcune sfaccettature e risvolti meno noti della fotografia possa allargare l’orizzonte, anche a chi questi risvolti non li pratica.

http://www.networkitalianofototerapia.it/

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Iniziamo con un vostro medaglione.

Un’esperienza che portiamo nel cuore, che per noi è stata estremamente significativa e che ha dato il via a tutto quello che è accaduto dopo, è relativa al nostro primo workshop, un intensivo residenziale di Fototerapia e Fotografia Terapeutica che abbiamo tenuto nell’agosto del 2015 in un casolare in provincia di Perugia. Dodici meravigliose e curiose donne che hanno creduto in noi e si sono iscritte a scatola chiusa, ci hanno dato la carica e ulteriormente motivato a proseguire in questa direzione. 

In Italia, fino a quel momento, non era ancora stato fatto nulla di simile e da allora ci siamo sentiti più volte dire “vi stavamo aspettando”.

Parliamo un po’ in generale di NetFo. Qual è la sua storia? Quale la sua missione?

NetFo nasce nel 2014 da una comune passione di sei professionisti per la fotografia e per il suo utilizzo nelle relazioni di aiuto. La fotografia è stato il filo che ci ha fatto conoscere, prima sul web poi nella vita reale e la prima edizione del Perugia Social Photo Fest (2012), il primo Festival internazionale dedicato alla fotografia sociale e terapeutica, è stato il luogo del nostro importante incontro. Grazie a un’intuizione di Antonello Turchetti, direttore del festival, è nato NetFo.

Attualmente si parla tanto della fotografia come medium nella relazione di aiuto e questo crediamo sia, in parte, anche dovuto al lavoro fatto dal nostro gruppo in questi anni. Quando ci siamo incontrati, nel 2012, invece, non c’era molto su quest’argomento ed ognuno di noi cercava materiali e professionisti che, in qualche modo, utilizzavano le immagini fotografiche nel proprio lavoro.

La mission di NetFo, sin dalle origini, è stata ed è tuttora quella di contribuire, concretamente, alla diffusione della cultura fotografica tra i professionisti della relazione di aiuto, di promuovere l’uso della fotografia nella pratica clinica, di organizzare attività formative, di sviluppare progetti di prevenzione e promozione del benessere, di organizzare eventi, mostre, incontri, e creare occasioni di confronto tra diverse professionalità.  

Da ciò sono nate diverse collaborazioni a livello nazionale e internazionale, è nato il nostro corso di formazione annuale, prima ad Assisi poi a Roma, la rivista Ne.Mo e il Network Italiano.

Un altro aspetto è legato alle riflessioni che abbiamo aperto per fare chiarezza sugli ambiti di intervento della fototerapia e fotografia terapeutica e sull’importanza di avere una formazione adeguata, quando la fotografia viene utilizzata in ambito clinico, sociale e di comunità.

In sintesi potremo dire che dove si parla di fototerapia, fotografia terapeutica e fotografia ad azione sociale, NetFo c’è! 

Cos’è il Network NetFo? 

Il Network è nato nel 2019. L’idea è stata quella di creare uno spazio virtuale, o meglio un contenitore-incubatore che potesse accogliere i nominativi delle persone che si sono formate con noi negli anni.

In un momento storico in cui la fototerapia e la fotografia terapeutica erano diventate un po’ di moda sui social, abbiamo sentito il bisogno di valorizzare e nel contempo proteggere il nostro lavoro. 

Il Network, non solo intende dare visibilità alla nostra rete di professionisti, ma è anche uno strumento dal quale, tutti coloro (enti, associazioni ecc…) che vogliono avvalersi della collaborazione di esperti nell’uso della fotografia nelle relazioni d’aiuto, possono attingere. Il territorio nazionale è ben coperto e abbiamo colleghe anche in Svizzera e Germania, il gruppo è multidisciplinare e multiprofessionale, in grado di rispondere a differenti richieste e tipologie di intervento.

http://www.networkitalianofototerapia.it/il-network/

Quali sono le basi terapeutiche su cui si basa la fototerapia? Esistono una teoria e una prassi assestate?

La fototerapia utilizza le fotografie come strumento per esplorare, comprendere e promuovere il benessere psicologico. 

Sebbene non esista una teoria unificata, la fototerapia si basa su una combinazione di principi e approcci provenienti da diverse discipline, tra cui psicologia, arte terapia e terapia espressiva. Pioniera nel campo è stata Judy Weiser, psicologa e arte terapeuta canadese, che dagli anni settanta ricerca in questo ambito, arrivando a strutturare cinque tecniche che permettono di integrare la fotografia in terapia.

Esplorando le immagini e discutendole con un terapeuta, all’interno di un setting clinico, il paziente è invitato a riflettere sui sentimenti, sui pensieri e le esperienze associati che potrebbero essere difficili da comunicare verbalmente.

Le fotografie possono raccontare storie e rappresentare momenti significativi nella vita di una persona. Attraverso la selezione e la narrazione delle immagini, il paziente esplora il significato personale che queste foto hanno per lui, creando una connessione con diversi aspetti della propria identità e della propria storia.

Le immagini possono facilmente stimolare la memoria, riconnettendo il soggetto con eventi passati, persone e luoghi, facilitando il processo di elaborazione emotiva e la comprensione di sé.

Quali sono le situazioni in cui la fototerapia si rivela di supporto?

La fototerapia può essere di supporto in contesti clinici e non. Se introdotta nella pratica clinica, la fotografia può svolgere un ruolo di supporto prezioso anche nell’esplorazione e nell’elaborazione di esperienze traumatiche o nella gestione del lutto, facilitando il processo di rielaborazione.

Le fotografie, proposte in diversi contesti da altri professionisti della relazione d’aiuto (educatori, assistenti sociali, counselor, tecnici della riabilitazione psichiatrica, ecc), diventano efficaci strumenti di espressione emotiva.

Contesti di gruppo, laboratoriali e di formazione, così come i contesti scolastici e di cura, offrono diverse opportunità per l’applicazione della fototerapia, dove può essere utilizzata per migliorare la comunicazione, incontrare i propri valori, mettere a fuoco i desideri e gli obiettivi di vita, incoraggiando la crescita e lo sviluppo personale per una maggiore consapevolezza e comprensione di sé e degli altri.

I vostri corsi a chi sono rivolti? E la formazione che si ottiene, in che campi di attività viene spesa?

I nostri corsi sono rivolti a diverse figure professionali (psicologi, psicoterapeuti, arte terapeuti, educatori, assistenti sociali, counselor ecc.) che, a vario titolo, si occupano di relazioni di aiuto e siano interessate ad utilizzare la fotografia nel proprio lavoro. La formazione è aperta anche ad un numero limitato di fotografi, accuratamente selezionati. Questo perché riteniamo che sia importante offrire una formazione adeguata anche a fotografi che, per motivi diversi, già si trovano a lavorare in ambito sociale o a collaborare con realtà che si dedicano alla cura o al sostegno di determinate fragilità, in una logica di lavoro in rete in équipe multidisciplinari. 

Nei corsi, quindi, abbiamo sempre dei gruppi eterogenei e ciò è sempre stata una risorsa perché ha permesso un confronto tra linguaggi e background diversi, il che è sempre stato un arricchimento per gli allievi. Crediamo che questo nasca anche dal fatto che noi di NetFo, per primi, proveniamo da percorsi professionali e formativi differenti e ciò ci ha sempre permesso di vedere le cose da varie prospettive e di integrarci tra noi. 

La formazione che si ottiene con il corso può essere spesa in vari ambiti lavorativi. Il medium fotografico è uno strumento versatile, utilizzabile con tutte le fasce di età, sia in gruppo che in setting individuali, nelle scuole così come nelle aziende e in altri luoghi. Una volta compreso, attraverso la formazione e l’esperienza personale, quanto il medium fotografico può essere potente e trasformativo, si può davvero utilizzare in ogni contesto integrandolo nelle proprie competenze pregresse.

Qualche parola sulla vostra (bellissima!) pubblicazione periodica

Ti ringraziamo davvero tanto per questa domanda sul nostro pesciolino Ne.Mo, di cui siamo tanto orgogliosi. Innanzitutto è un progetto editoriale indipendente, completamente autoprodotto e autofinanziato, che abbiamo ideato nel 2017. 

Ne.Mo, rivista online di Fototerapia, Fotografia Terapeutica e Fotografia ad Azione Sociale, nasce come contenitore per raccogliere e dar voce alle diverse modalità di utilizzo dell’immagine fotografica, sia a livello nazionale che internazionale. È un magazine, scaricabile a tutt’oggi gratuitamente dal nostro sito, che racconta e documenta le più svariate testimonianze e modalità in cui la fotografia può entrare nel proprio lavoro e nella propria vita, trasformandoli. 

Ne.Mo rientra nella nostra mission come divulgatore della cultura fotografica tra i professionisti della relazione d’aiuto e non solo e soprattutto è per noi un regalo che abbiamo voluto farci e donare agli altri.

Ne.Mo è un progetto che richiede molta cura e tantissimo tempo per la sua realizzazione, in quanto la componente fotografica e grafica hanno un peso rilevante e, come dici tu, è proprio bellissimo. Siamo sbalorditi dal numero dei download che ci rimanda il contatore del nostro sito, ad oggi siamo a 20610…Pazzesco!! Tutto ciò ci porta a pensare che anche qui abbiamo creato qualcosa che prima non c’era.

Il primo numero è uscito nel 2018 e, ad oggi, ne abbiamo pubblicati quattro. Il numero del 2023 è al momento in stato di incubazione. Vogliamo mantenere alto il livello, prendendoci il tempo necessario per uscire col prossimo. 

Nel frattempo ovviamente invitiamo a scaricare le edizioni esistenti, qui: http://www.networkitalianofototerapia.it/ne-mo/

Un po’ di pubblicità: quando inizia il vostro prossimo corso?

Più che il prossimo corso è meglio parlare di prossima edizione. Siamo arrivati alla settima e questo ci rende molto fieri. La formazione annuale 2023-24 in “Fototerapia e Fotografia Terapeutica” partirà a fine settembre, ma le iscrizioni chiuderanno a breve. 

https://www.networkitalianofototerapia.it/corso-annuale-2023-24/

Ci teniamo, però, ad aggiungere che come gruppo di lavoro, ma anche come singoli professionisti, oltre al corso annuale, partecipiamo anche a progettualità ad ampio raggio sul territorio nazionale e forniamo servizi di supervisione ad altri professionisti impegnati nelle relazioni di aiuto che intendono sviluppare o promuovere interventi mediati dal linguaggio fotografico e dai linguaggi visivi più in generale.

Un’ultima cosa… a breve si concluderà l’annualità 2022-2023, con il consueto evento finale che consiste in una mostra, un 4HOURSHOW, che vedrà esposti i progetti personali sviluppati dalle allieve e dagli allievi durante l’intero percorso di formazione. La mostra di quest’anno avrà come titolo “Attraverso la crepa. Racconti di fotografia terapeutica”, vi invitiamo a venirci a trovare sabato 17 giugno, dalle 18.00 alle 22.00, presso l’Ass. Antica Stamperia Rubattino, in via Rubattino n.1, a Roma, rione Testaccio.

(i fondatori di NetFo: in ordine sparso, Antonello Turchetti, Barbara Pasquariello, Floriana Di Giorgio, Francesca Belgiojoso, Giancarla Ugoccioni e Chiara Digrandi)

Ipse dixit (9)

February 1, 2023 § Leave a comment

“Le mie fotografie non scendono sotto la superficie, non scendono sotto nulla.
Piuttosto, leggono la superficie. Ho molta fiducia nelle superfici.
Una buona superficie è piena di indizi.”
(Richard Avedon, citazione presa dalla magnifica mostra antologica che si è appena chiusa a Milano)

Resto sempre sorpreso dal constatare quanti sedicenti fotografi e critici affermino con grande sicurezza che il compito della fotografia è “andare all’essenza delle cose” – compito che i grandi della fotografia (come è stato Avedon) rifiutano di regola recisamente.

Esiste una “essenza delle cose”, indipendente da chi le fotografa o comunque le racconta?
E se così fosse, avrebbe ancora senso fotografare, una volta che questa essenza è stata disvelata?

La necessità di un linguaggio

May 1, 2022 § 2 Comments

Continuano a guadare il mare come se dovesse succedere qualcosa da un momento all’altro; si direbbe che aspettino la fine del mondo gli etologi tedeschi, qui al limite estremo della pianura. Ci hanno mescolato le anime e ormai abbiamo tutti gli stessi pensieri. Noi aspettiamo ma niente ci aspetta, né un’astronave né un destino.
Se adesso cominciasse a piovere ti bagneresti, se questa notte farà freddo la tua gola ne soffrirà, se torni indietro a piedi nel buio dovrai farti coraggio, se continui a vagare sarai sempre più sfatto. Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo
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(Gianni Celati, “Verso la foce”)

Tutti sappiamo che la prosa di Gianni Celati, in questo caso le sue statiche descrizioni del paesaggio padano, ben si rapporta con le fotografie del suo amico Luigi Ghirri. Non è il fatto di parlare degli stessi luoghi a legarle: piuttosto, la capacità di toccare corde emotive comuni sia pure con linguaggi diversi, letterario da un lato, iconico dall’altro. E di questo, sia Celati che Ghirri erano ben coscienti.

Ma se le corde emotive toccate sono normalmente più chiare per la letteratura, usare quelle stesse corde nel linguaggio fotografico sembra un argomento ancora piuttosto aperto. Ed è per questo che ho trovato molto interessante, e tutto sommato molto inconsueta per i nostri panorami, questa mostra, tenutasi a Roma qualche tempo fa. Un tentativo di mettere in parallelo fotografia e letteratura, che riporta l’attenzione sulla necessità di perseguire una semantica, per sfumata che sia, anche in fotografia.

Mostra che propone accostamenti che funzionano, insieme ad accostamenti che non funzionano affatto: segno che l’uso della fotografia per veicolare emozioni, un uso consapevole intendo dire, è un terreno ancora ampiamente inesplorato non solo per il fotografo medio, ma anche per molti fotografi “evoluti”.

L’Amazzonia, e Photoshop

December 27, 2021 § Leave a comment

Sebastião Salgado, non c’è dubbio, è un grande fotografo. E, nonostante le perplessità che coltivavo, sono andato senza troppe esitazioni a vedere la sua mostra “Amazzonia” presso il MAXXI di Roma.

Diciamolo subito, una mostra da vedere. Allestimento pressoché perfetto: grandi stampe, nessun riflesso, documentazione della giusta consistenza. Perfino il sottofondo acustico – che mi preoccupava non poco – si fonde piacevolmente con le immagini. Sicuramente un grande lavoro fotografico e sociale, durato ben sei anni, alla ricerca delle tribù più isolate e della loro storia, delle devastazioni operate dalle grandi multinazionali, ma anche delle specificità ambientali, climatiche, biologiche. Quindi, si esce con stimoli su cui meditare.

Come spesso accade, c’è però qualcosa che lascia perplessi nelle scelte fotografiche.

Non mi scandalizza il fatto che Salgado portasse con sé telone e luci per allestire un set “da campo” per i ritratti: lavorare su un set, oltre ad essere uno stilema perfettamente ammissibile, può essere perfino un antidoto al facile paternalismo del selvaggio ritratto nel suo ambiente – a parte il fatto che personalmente, dopo molti anni e molti viaggi, dove si fermi la documentazione e inizi il paternalismo non l’ho ancora capito. Ma il discorso sarebbe lungo.

Parlo invece dei paesaggi. Qui si sente il peso di una postproduzione davvero esasperata, alla ricerca di effetti che, se strappano espressioni di meraviglia allo spettatore comune, non passano inosservati a chi di fotografia mastica un po’ di più (e comunque, beninteso, piacciono anche a molti fotografi).

Ora, sarà anche vero che la foto di paesaggio in bianco e nero si voglia liberare della ingombrante eredità di Ansel Adams. Ma, se tutti ormai accettiamo che parte del realismo vada sacrificato all’impatto emotivo, Adams, che muoveva dalla straight photography, era però molto attento a utilizzare la tavolozza che il bianco e nero gli permetteva (sicuramente, molto meno ricca allora di quanto non lo sia oggi) in modo che l’occhio non percepisse inganni che lo avrebbero fatto prendere le distanze da immagini troppo artefatte. Preoccupazione che a quanto pare Salgado, specie nella sua produzione più recente, non ha. Un po’, mi si passi il paragone, come un McCurry del bianco e nero.

E’ così che questa esasperazione quasi bulimica dei toni diventa ad un certo punto indigesta, e lascia l’impressione di una ricerca estetica, sia pure condotta con estrema perizia tecnica, ma un po’ fine a se stessa. E l’Amazzonia, terra bellissima di suo, di questa indigestione di bianchi e neri assoluti non ne ha sicuramente bisogno.

La Spigolatrice callipigia

December 8, 2021 § Leave a comment

(questo blog, per molti motivi, segue sempre un po’ a distanza i dibattiti e le polemiche da prima pagina. questa però merita un post, sia pure intempestivo)

Se, almeno nella mia generazione, si può dire che ben pochi siano sfuggiti allo studio della “Spigolatrice di Sapri” di Luigi Mercantini, questo ricordo perso nella memoria non faceva supporre che di colpo il tema diventasse d’attualità. La statua commissionata dal Comune di Sapri allo scultore Emanuele Stifano ha immediatamente attirato su di sé un coro di critiche contro l’aspetto, diciamo così, inaspettatamente provocante.

Premetto, tanto per chiarire, che la statua in questione la trovo esteticamente brutta, e artisticamente insignificante. Ma mi chiedo anche cosa faccia tanto scandalo, e perché.

Intanto, certo, le fattezze della statua non corrispondano a quelle di una povera contadina di metà ‘800. Messa in questi termini, l’obiezione è però inconsistente: abbiamo alle spalle molti secoli di Madonne in abiti e case del tempo in cui sono state dipinte, di Gesù bambini paffutelli, e di tante altre licenze pittoriche o scultoree che sarebbe impossibile citare. L’opera d’arte non ha il dovere di rappresentare fedelmente la realtà, anche se è vero che questa libertà rappresentativa dovrebbe evocare, suggerire, far risuonare corde altrove. La qual cosa non avviene (beh, a me almeno non è capitata) con la “Spigolatrice” di Stifano.

E la rappresentazione della donna, è legittimo che sia sessualizzata in questo modo? Qui il discorso si fa più scivoloso, andando a toccare il nervo scoperto del sessismo. Il quale potrebbe anche non entrarci affatto – la storia dell’arte è piena di rappresentazioni fortemente sessuate, dalla Venere Callipigia (alla quale deve pur essersi ispirato il nostro), alla ambigua estasi di Santa Teresa, alla Pudicizia della Cappella Sansevero, di nuovo troppi esempi per farne una lista sia pur parziale.

Del resto, la stessa Spigolatrice di Mercantini non sembra sentirsi troppo vecchia o in disarmo da non poter provare attrazione per Pisacane:

Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro
un giovin camminava innanzi a loro.
Mi feci ardita, e, presol per la mano,
gli chiesi: “Dove vai, bel capitano?”

Personalmente mi infastidisce questo annoverare la rappresentazione sessuata sotto la voce “sessismo”; ma, d’altra parte, non tocca a me definire il sessismo. Quello che però mi chiederei, anche in questo caso, è se questo tipo di rappresentazione riesca poi ad essere veicolo di un senso. Perché di rappresentazioni sessuate, nell’iconografia che ci inonda, ce n’è in eccesso, e a un artista si chiederebbe di uscire da quello che è diventato un vero stereotipo rappresentativo, e utilizzare quella potenziale forza narrativa per portarci, di nuovo, da qualche altra parte. E direi che Stifano, se pure ci ha provato, non c’è davvero riuscito.

(poi ci sarebbe da chiedersi perché si inveisca genericamente contro la “sessualizzazione” e non se ne possa riconoscere un legittimo perimetro. tutto questo ha quel sapore di scontro di tifoserie, che ormai affligge gran parte del dibattito politico e culturale italiano. sempre secondo me, s’intende)

Fermarsi, ripartire

August 16, 2021 § Leave a comment

(sì, questo blog è fermo da più di un anno, ma certo in qualche modo in questi mesi siamo stati tutti fermi. Qualcosa in più mi ha bloccato in questo tempo, ed è stata la morte di un grande fotografo, che avevo la fortuna di annoverare tra i miei “amici di fotografia”)

A sei mesi dalla sua morte, e nel giorno che sarebbe stato del suo sessantatreesimo compleanno, riattivo questo blog per ricordare Efrem Raimondi, che è stato il fotografo che mi ha più influenzato, seguito, consigliato, smontato, rimontato e incoraggiato in questi ultimi anni.

Una cosa per tutte: con lui era difficile distinguere il lato fotografico da quello personale – la fotografia è mettersi in gioco, è concentrare lì, in quel rettangolo, quello che hai da dire e come lo vuoi dire, è esporsi senza trucchi formali, è andare all’essenza del tuo stesso sguardo – non so se me lo hai mai detto veramente con queste parole, ma questo è sempre stato il messaggio.

Mettersi in gioco.

E quel mettersi in gioco, al di là della maggiore o minore (o nel mio caso, molto minore) bravura, è stato un messaggio che ricorderò bene.

Estetica e deontologia

March 28, 2020 § Leave a comment

GREECE. Lesbos. Mytilene. 2015.

Nella mia bolla fotografica si è discusso molto, nei giorni scorsi, di questo lavoro di Alex Majoli, dedicato alla pandemia da COVID-19. In particolare, si discuteva del confine tra “estetica” ed “estetizzazione”, dove nella seconda categoria andrebbe messo essenzialmente l’eccessivo compiacimento per gli abbellimenti estetici, siano essi esibizioni tecniche, vezzi compositivi o postproduzioni esagerate (e si direbbe che il lavoro di Majoli ricada a pieno titolo in quest’ultima categoria).

Sul sito di Magnum Photo, Majoli stesso spiega queste scelte stilistiche, sostenendo senza mezzi termini che, la vita essendo a tutti gli effetti un palcoscenico dove ognuno recita un certo personaggio, il fotografo è perfettamente legittimato a trattare ogni situazione, anche le più drammatiche, come un set dove ognuno, in fondo, posa per lui.

Ora, scusate, ma io resto sconcertato: non tanto per la citazione di Pirandello (che peraltro non è l'”ultimo grido” nel dibattito culturale attuale), ma per le implicazioni morali e deontologiche.

Sostiene Susan Sontag in On Photography che, in questo processo di rendere speciali le cose quotidiane e quotidiane le cose speciali, la fotografia è una specie di anestesia di massa: a forza di mostrarci situazioni drammatiche, desensibilizza il nostro occhio di fronte alla tragedia. E in questa operazione anestetica, cambia anche inevitabilmente la nostra capacità di reazione e, in ultima analisi, il nostro orizzonte etico.

Se questo era vero negli anni 70 di Sontag, oggi lo è più che mai: e la teatralizzazione di Majoli ne è l’ennesima conferma. Se il reporter ha il dovere (ma ce l’ha davvero, poi?) di documentare, qual è la giusta distanza dalle situazioni che si trova davanti? Se tutti consideriamo melodrammatiche le foto di Dorothea Lange, dobbiamo invece pensare che un qualsiasi dramma altro non sia che un set su cui esibire il nostro stile fotografico?

Ecco, magari si è già capito, ma io penso di no.

Resta infine la questione estetica: cosa dire di foto così pesantemente postprodotte, specie quando appaiono in un quadro di reportage? Quel che penso lo ho già scritto a suo tempo a proposito di Steve McCurry, e forse mi ripeterò. Questi virtuosismi di postproduzione fanno indubbiamente parte dell’odierno gusto estetico di massa, e quando si vive vendendo le proprie foto evidentemente si tende a inseguire questo gusto. I soldi non sono tutto nella vita, ma qualcosa sono: da qui a parlare di questa fotografia in termini di arte, però, ce ne passa.

(un’ultima cosa: vi prego, non scomodate Caravaggio. la luce di Caravaggio era profonda, scultorea, tridimensionale. niente a che vedere con questo impasto grigio)

Ipse dixit (8)

October 16, 2019 § 1 Comment

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“L’immagine artistica è di per sé espressione della speranza, grido della fede, e ciò è vero indipendentemente da cosa essa esprima, foss’anche la perdizione dell’uomo.
L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista, anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica.
Per questo non possono esserci artisti ottimisti e artisti pessimisti.
Possono esserci solo il talento e la mediocrità.”

Andrej Tarkovskij

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Nei primi anni ottanta, Tarkovskij arriva in Italia da esiliato, e lavora al suo penultimo film, Nostalghia. Con una polaroid ricevuta in regalo (da Antonioni, pare) scatta molte foto, per lo più tra Roma e la Toscana, cercando tanto i luoghi adatti al film, quanto le atmosfere statiche, rarefatte e malinconiche che lo caratterizzeranno.
Qualche decina di queste stupende foto, insieme con i suoi appunti, andranno a confluire nel libro “Luce istantanea”, da cui è tratta questa citazione, e che ringrazio l’amico fotografo Fabio Moscatelli per avermi fatto conoscere.

(Trovate quasi tutte le foto in questione qui, mentre l’intero film Nostalghia è su YouTube, qui. E’ invece molto difficile trovare il libro, essendo esaurite tutte le edizioni. Se siete di Roma, potete averlo in prestito dalle Biblioteche Comunali)

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About your body

April 21, 2019 § 3 Comments

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Una amica artista e fotografa molto attiva, Vanessa Rusci, sta portando a Roma un workshop, da titolo appunto di “About your body“, dedicato al tema dell’autoritratto al femminile. Il tema mi sembrava degno di un approfondimento, ed ecco quindi una (breve) intervista a Vanessa su questo tema, che vuole essere anche una ulteriore riflessione sulla valenza individuale e collettiva dell’immagine, in particolare femminile.

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Una breve presentazione di te e della tua attività artistica e fotografica.

Sono una giovane fotografa italiana che ha avuto la fortuna di stare molto anche all’estero, di studiare in una folle scuola come quella di Fabrizio Ferri a Milano, “L’università dell’Immagine” dove si studiavano i 5 sensi, il marketing, si assaggiavano cibi prima di fotografarli, si toccano materiali per ragionare sulle percezioni tattili, si faceva yoga e si inventavano profumi.

La ricerca artistica, la sperimentazione, la ricerca di un mio linguaggio sono sempre stati il fulcro del mio percorso fotografico.

Mi occupo di fotografia professionale per il marketing e di arte contemporanea, espongo regolarmente in molti paesi del mondo, le mie opere sono presso due gallerie europee e nei miei progetti mi interesso di tematiche femminili.

Nel 2005 ho inventato un metodo per insegnare fotografia, mirato a far emergere il proprio stile e la propria sensibilità, “Approccio alla fotografia attraverso i 5 sensi” sulla traccia della scuola creata nei primi anni del 2000 da Fabrizio Ferri. Un genio.

In questi siti un po di me e di ciò che ho fatto:

www.vanessarusci.com

www.vanessa-rusci-arte.com

 

Perché l’autoritratto?

Ho iniziato a lavorare con l’autoritratto all’inizio del mio percorso fotografico, in tempi lontani dai miei studi sulla percezione e sul “pregiudizio visivo”, e sull’impatto che ha nel nostro modo di “vedere” e di fare fotografia, registrando un cambiamento su come mi vedevo e su come mi sentivo, e mentre mi vedevo, cambiava anche il mio modo di guardare l’esterno. Questo sono convita abbia a che fare con la consapevolezza del “vedere”.

Nel 2014 ho iniziato a proporre il workshop e il mio progetto avendo così la possibilità di dimostrare sul campo che le mie tesi erano corrette e che la fotografia era un mezzo per conoscersi su molti piani (fisico, psicologico, percettivo) e che guardarsi con l’occhio “della macchina” portava nuove verità.

Può sembrare banale a chi si occupa di filosofia, di percezione e ottica, ma non lo è per tutti quelli che l’immagine la subiscono, la vivono come verità.

Durante i workshop, gli incontri nelle scuole e i progetti sociali ho sempre osservato come il rapporto tra la propria immagine e la fotografia, intesa come le immagini che ci vengono propinate, risulti molto falsato rispetto alla realtà. Crediamo molto alla fotografia, senza conoscerne le tecniche, crediamo alle sue false verità.

In molti dei miei lavori ho scoperto che l’autoritratto è sia uno strumento che aiuta in certe dinamiche personali che una conseguenza del mio percorso come artista visiva.

 

Spiegaci il meccanismo degli stage che tu proponi.

Do input sui quali riflettere, che portano le partecipanti a iniziare un percorso di conoscenza della propria immagine attraverso la fotografia: svelo i segreti della visione, della percezione e mostro le conclusioni alle quali sono arrivata partendo dall’immagine che si ha di se stessi.

Le donne che partecipano semplicemente si fotografano, provano a vedersi attraverso la macchina fotografica, sia vestite che nude, in uno spazio privato e a turno.

Accompagno queste azioni con una riflessione teorica sul concetto di bellezza nella storia, nella filosofia e di pregiudizi culturali e psicologici che falsano la nostra percezione.

Al di là di questo specifico workshop mi piace concepire la fotografia con lo studio, con la cultura e approfondendo concetti come la visione, la percezione, la capacità di esprimersi, la creatività.

La tecnica fotografica è alla base di una buona immagine ma sono convinta che senza una buona cultura, amore per la ricerca, curiosità e senza mettere in discussione le proprie convinzioni non si possa esprimere il proprio stile, le proprie idee e a fare fotografia. Ogni giorno vengono prodotte milioni di fotografie banali e tutte uguali: queste immagini si sedimentano nella nostra testa e creano un linguaggio piatto e abbastanza dannoso.

 

Ti sembra un obiettivo realistico quello di una corretta percezione della propria immagine?

L’obiettivo che voglio raggiungere non è avere una corretta percezione della propria immagine. Esiste una vera e propria immagine che sia obiettiva e reale? Io sono convinta di no. La fotografia è la somma di più fattori: basta pensare all’utilizzo di un obiettivo grandangolo e alle aberrazioni che produce.

Il fine del mio workshop è quello di rendere consapevoli le partecipanti di come funziona la percezione e di come il pregiudizio visivo, ovvero l’insieme delle nostre conoscenze, delle nostre credenze e del nostro bagaglio esperienziale, unito al nostro stato d’animo influenzi la percezione della nostra immagine interiore, il nostro modo di vedere e quindi di fare fotografia. E’ straordinario come ad esempio persone molto belle, che però non conoscevano le aberrazioni di un grandangolo continuassero a ripetermi che venivano male in foto, che non erano fotogeniche che non si piacevano.

Il mio workshop “usa” la fotografia. La usa come strumento per raggiungere un fine: dare alle persone uno strumento di riflessione e di far produrre fotografie. Accade a volte che soprattutto le fotografe professioniste realizzino progetti molto interessanti. Infatti sto pensando di realizzare una mostra con alcune di loro.

 

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E come descriveresti, in poche parole, lo scollamento tra questa percezione e l’immagine della donna che i media ci propongono?

Da molti anni studio e faccio ricerca sul plagio mediatico. I media hanno una grande responsabilità su ciò che pensiamo, crediamo e sulla nostra cultura. Ho scritto responsabilità e non influenza, perché la comunicazione degli ultimi 30 anni in Italia ha prodotto un pensiero collettivo non costruttivo, positivo, rassicurante ma critico eccessivo, controllante e castrante. I media sono frutto della società in cui nascono e così i loro messaggi.

Insieme ai media la responsabilità è anche nostra perchè abbiamo permesso a certi messaggi di catturarci, di ipnotizzarci, per comodità e superficialità. Un po come succede a Pinocchio con le promesse del Paese degli asinelli. Per certe donne, ad esempio, la percezione dell’immagine di se e la sofferenza che ne deriva, è influenzata da fattori come il contesto sociale e culturale.

 

Questa linea di lavoro, se non capisco male, muove anche dalla tua storia. Cosa c’è di personale?

Moltissimo e per varie ragioni ed esperienze, alcune positive, altre negative.

Come detto sopra ho realizzato lavori sui disturbi alimentari, sulla violenza sulle donne, sulle tematiche della sofferenza femminile: tutte situazioni dove registravo quanto la sofferenza era collegata all’immagine interiore che la donna ha di sé.

Per superare un momento molto difficile della mia vita ho applicato su me stessa le tecniche di About your body: ho iniziato quasi due anni fa e ho continuato la mia ricerca spaziando in tantissimi campi della vita femminile. In più da anni sono a contatto, come fotografa, con psicologi, psicodrammatisti, analisti che mi hanno dato molte risposte nuove sul tema dell’immagine. Tutto questo ha contribuito a migliorare la percezione che avevo di me stessa: uso sia l’autoritratto che il selfie perché raccontano qualcosa di me che la mente spesso tende a mascherare.

Il mio workshop non è fototerapia o un gruppo di auto aiuto: non do interpretazioni o soluzioni a eventuali stati di malessere ma suggerisco la fotografia come strumento di ricerca personale, per comprendere come si vede e come si percepisce la realtà. Facciamo fotografia, scattiamo selfie e autoritratti. Una sezione per esempio è dedicata alle tecniche e alle grandi fotografe.

 

Pensi che, magari meno vistoso, esista uno scollamento simile anche con l’immagine mediatica dell’uomo?

Assolutamente si. Questo workshop non ammette uomini. Mettere insieme uomini e donne da il via a dinamiche che ostacolano la spontaneità: il nudo ci pone ancora di fronte a tanti tabù e blocchi.

 

Muovendosi nello spazio del “selfie”, e quindi richiamandosi in qualche modo alla foto “social”, qual è il tuo giudizio su questo mondo?

Io amo i Social Network, li uso da sempre, sia come strumento per fare arte e ricerca, sia come spazio per condividere il mio lavoro. In Italia ancora non li sappiamo usare, li temiamo e li attacchiamo perché rappresentano uno strumento estremamente democratico, che ci impone un confronto e ci mette di fronte a situazioni scomode. E’ uno strumento neutro: dipende da come lo si usa e per quale scopo.

 

Quanta spazzatura e quante cose interessanti si vedono?

Un po’ di tutto. Sta a noi avere senso critico, scegliere e partecipare all’inserimento di contenuti interessanti, senza lasciare spazio alla critica. Viviamo con l’illusione che un contenitore umano possa essere al 100% interessante.

 

Quanto conformismo?

Tutto quello che c’è nella nostra società.

 

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(Le immagini nel testo sono opere di Vanessa Rusci. E questa, invece, è un ritratto di Vanessa – scattato da me)

 

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Calvino e le strade già percorse

January 10, 2019 § Leave a comment

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Basta che cominciate a dire di qualcosa: ‘Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!’ e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia.

Italo Calvino fa presentare così, nel racconto “L’avventura di un fotografo”, scritto verso la fine degli anni ’50, il protagonista Antonino Paraggi. Le parole sono prese da un articolo dello stesso Calvino, “La follia del mirino”, apparso nel ’55 sulla rivista “Il contemporaneo”, e molto polemico verso i fotografi della domenica.

Da questa partenza, si immagina subito come Antonino sia il pedante alter ego di Calvino stesso, e nel corso del racconto il suo filosofare sulla fotografia si intreccerà con una incompiuta storia d’amore con una sua modella, Bice, conosciuta in una uscita tra amici.

Cosa vi spinge, ragazze, a prelevare dalla mobile continuità della vostra giornata queste fette temporali dello spessore d’un secondo? […] Il gusto della foto spontanea naturale colta dal vivo uccide la spontaneità, allontana il presente. La realtà fotografata assume subito un carattere nostalgico, di gioia fuggita sull’ala del tempo, un carattere commemorativo, anche se è una foto dell’altro ieri. E la vita che vivete per fotografarla è già in partenza commemorazione di se stessa. Credere più vera l’istantanea che il ritratto in posa è un pregiudizio…

Antonino inizia quindi la sua esperienza fotografica dal ritratto in studio.

C’erano molte fotografie di Bice possibili e molte Bice impossibili a fotografare, ma quello che lui cercava era la fotografia unica che contenesse le une e le altre. – Non ti prendo, – la sua voce usciva soffocata e lamentosa da sotto alla cappa nera, – non ti prendo più, non riesco a prenderti. Si liberò dal drappo e si rialzò. Stava sbagliando tutto da principio. Quell’espressione quell’accento quel segreto che gli sembrava d’esser lì lì per cogliere sul viso di lei era qualcosa che lo trascinava nelle sabbie mobili degli stati d’animo, degli umori, della psicologia: era anche lui uno di quelli che inseguono la vita che sfugge, un cacciatore dell’inafferrabile, come gli scattatori d’istantanee.

Scattando e cercando di afferrare “l’essenza” di Bice, Antonino se ne innamora e sprofonda in una vera e propria ossessione fotografica.

Antonino continuava a scattare istantanee di lei che si districava dal sonno, di lei che si adirava con lui, di lei che cercava inutilmente di ritrovare il sonno affondando il viso nel cuscino, di lei che si riconciliava, di lei che riconosceva come atti d’amore queste violenze fotografiche.

E quando Bice lo abbandona, Antonino lascia andare in malora la sua casa, fotografandone ogni angolo, e soprattutto ogni fotografia, stracciata, tagliuzzata, mischiata ad altre immagini.

Esaurite tutte le possibilità, nel momento in cui il cerchio si chiudeva su se stesso, Antonino capì che fotografare fotografie era la sola via che gli restava, anzi la vera via che lui aveva oscuramente cercato fino allora.

Dopo aver attraversato molte questioni centrali nel dibattito sulla fotografia, il non-fotografo Calvino approda all’epilogo più estremo, che naturalmente vuole estendere ad ogni attività artistica dell’animo umano: molto è stato raccontato, forse tutto, e a noi non resta che ripercorrere i passi di qualcun altro, con la sola speranza, o scusante, di farlo a modo nostro.
Del resto, un quarto di secolo dopo, Calvino lo avrebbe scritto ancora più esplicitamente nella ultima e incompiuta delle sue Lezioni Americane:

Forse per la prima volta al mondo c’è un autore che racconta l’esaurirsi di tutte le storie. Ma per esaurite che siano, per poco che sia rimasto da raccontare, si continua a raccontare ancora.

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(E all’inizio degli anni ’80, il regista Francesco Maselli fece di questa storia un lungometraggio – e anche se lo stile è inequivocabilmente datato, vale comunque la pena di guardarlo. il pdf del racconto, invece, lo trovate qui)